Terza Edizione 2011-2012
Fondato da Bijoy Jain, Studio Mumbai è una struttura costituita da abili artigiani e architetti che progettano e costruiscono direttamente le loro opere. Formatosi nel corso del tempo, questo gruppo condivide uno spazio fisico nato da un processo iterativo, dove le idee sono esplorate attraverso la produzione di modelli a scala reale, plastici, materiali di studio, schizzi e disegni. I progetti sono sviluppati muovendo da un accurato studio del sito e delle pratiche desunte dalla tradizione artigianale, dalle tecniche costruttive e dai materiali locali, e dall’ingegnosità che nasce dalla limitata disponibilità di risorse.
L’essenza del lavoro di Studio Mumbai consiste nella relazione tra paesaggio e architettura. La sua sfida risiede nel dimostrare, nel campo della creazione architettonica, il potenziale insito nel processo di dialogo collettivo e di condivisione diretta delle conoscenze.
Bijoy Jain è nato a Mumbai, India, nel 1965 e si è laureato nel 1990 alla Washington University di St. Louis, USA. Ha lavorato a Los Angeles e a Londra tra il 1998 e il 2005, quando è tornato in India per fondare il proprio studio.
L’opera di Studio Mumbai è stata esposta alla XII Biennale di Venezia e al Victoria & Albert Museum, ed è ricevuto vari e importanti riconoscimenti, tra i quali, nel 2009, il Global Award in Sustainable Architecture.
La giuria ha premiato all’unanimità Studio Mumbai per la qualità delle opere presentate (Palmyra House a Nandgaon, Leti 360 Resort a Leti e Copper House II a Chondi, in India) e per l’originalità del processo da cui derivano: “un processo fondato su un raffinato sapere artigianale che viene riconsiderato e valorizzato attraverso una costante interazione tra disegno e costruzione e un metodo di lavoro collettivo in cui i diversi apporti concorrono inscindibilmente al risultato finale. In queste opere il rapporto con la tradizione locale muove dall’atto concreto del costruire (piuttosto cha da un determinato repertorio formale o tipologico) e pone in questione la natura stessa dell’atto creativo, sulla scorta di un orientamento empirista che apre la via a sviluppi fecondi”. Come ha dichiarato il presidente della giuria, Mario Botta, “di Studio Mumbai colpiscono le modalità del processo creativo e la ricerca di un rapporto con la storia e la memoria del luogo che, fondandosi su di un sapere costruttivo sedimentato, approda a un linguaggio contemporaneo alieno da cedimenti nostalgici. Mi piace pensare che in questi anni segnati dalla globalizzazione vi sia un recupero della perizia artigianale, così che l’architettura torni a essere anzitutto espressione, colta e sapiente, del lavoro umano”.
Scopri i progetti
Palmyra House
Nandgaon, Maharastra (India), 2007
La casa giace nel cuore di una folta piantagione di palme da cocco; vi si accede camminando lungo un acquedotto di pietra ricoperto dal muschio. I due volumi lignei, disposti con cura per preservare il maggior numero di alberi, sono ancorati a platee di pietra e guardano verso i pozzi, i canali d’irrigazione e il palmeto, intrecciandosi e assimilandosi a questo paesaggio complesso in un insieme domestico. Luce e aria filtrano attraverso le strutture di legno realizzate a mano, inondando dolcemente lo spazio. Riflessi, ombre, chiarore, penombra si alternano e animano la percezione degli ambienti. Nella casa il soggiorno e lo studio-biblioteca, collocati nel volume settentrionale, sono separati dalla cucina e dal pranzo, disposti in quello meridionale. Camere da letto e servizi sono distribuiti in ambedue i volumi. Gli eventi speciali hanno luogo tra queste due strutture, coinvolgendo nel loro svolgersi lo spazio intermedio e l’infinito stesso. Qui vi è la piscina, un canale per nuotare traguardando, verso levante, l’immenso palmeto, e dal lato opposto il mare. La densità degli alberi impediva l’uso di macchine edili pesanti e tutte le fasi della costruzione sono state realizzate da artigiani del nostro studio. Il telaio strutturale è di ain, un legno duro locale, ed è stato preparato in officina, quindi assemblato in situ usando giunti a incastro. Le persiane sono costruite con il legno esterno di palmyra, una palma locale, e sono state calibrate con cura per proteggere dal sole, dal vento e dalla pioggia, e assicurare intimità agli ambienti interni. Gli esterni sono rifiniti con scossaline di rame lavorate a mano e rivestimenti di doghe di legno, mentre le superfici interne sono in teak e in un intonaco lisciato di colore grigio-verde, che imita i licheni sulle palme. Quattro pozzi approvvigionano la casa di acqua e irrigano la piantagione usando i tipici acquedotti della regione, che stabiliscono una continua e reciproca relazione tra paesaggio e abitazione: il perpetuarsi di una tradizione, l’inizio di un rituale.
Palmyra House / © Video di Daniele Marucci
Leti 360 Resort
Leti, Uttaranchal (India), 2007
Situato a 2300 metri sul livello del mare e a nove chilometri dalla strada carrozzabile più vicina, l’insieme di edifici è appollaiato su un promontorio ai piedi dell’Himalaya indiano. Il sito è accessibile attraverso uno stretto sentiero scavato nel fianco della montagna, parte di una rete di percorsi usati dagli abitanti dei villaggi per gli spostamenti e i trasporti quotidiani. Il sentiero culmina negli ambienti destinati al pranzo e al soggiorno, costruiti su un pianoro, attorno ai quali sono distribuite discretamente le quattro abitazioni, adagiate nei terrazzamenti destinati alle coltivazioni. Il progetto è stato influenzato dalle limitazioni implicite nell’attività edilizia locale, da preoccupazioni di ordine ambientale e di sensibilità culturale e dall’attenta osservazione dei materiali locali, del clima, del paesaggio e dell’accessibilità del sito. Il progetto è stato realizzato nel giro di sette mesi grazie all’aiuto di oltre settanta muratori, carpentieri e artigiani provenienti dal villaggio vicino. Sono stati loro ad affittare il terreno e a garantire la manodopera, imponendo tuttavia una condizione: che il programma dei lavori rispettasse il ciclo delle stagioni e le consuetudini che questo ha da sempre dettato. I costruttori contadini hanno sospeso i lavori due mesi prima dell’arrivo dei monsoni (a giugno) e d’inverno (a dicembre), per mettere al riparo i loro animali e preparare le loro case ad affrontare le continue piogge e nevicate. Il progetto è una rielaborazione passiva del paesaggio attraverso la raccolta, la traslazione e la condensazione di materiali locali in strutture salde quanto temporanee, che non cercano di resistere al fluire del tempo e alle trasformazioni che questo comporta. Spessi muri a secco conferiscono massa e tramatura ad ogni edificio, mentre le superfici vetrate mettono in relazione i loro abitanti con il paesaggio. Le pietre, cavate nelle vicinanze, e gli altri materiali da costruzione sono stati preparati per l’assemblaggio, quindi trasportati sul cantiere da muli e portatori. La collocazione remota impone l’indipendenza energetica degli edifici e la costruzione di una propria infrastruttura, e così pannelli solari garantiscono l’approvvigionamento di acqua calda e ricaricano lanterne portatili. Il progetto è considerato alla stregua di un insediamento temporaneo che può essere smantellato, permettendo alla natura di riguadagnare a sé il sito. I contadini continuano a usare i terrazzamenti tra le abitazioni, facendo pascolare pecore, capre e bovini sul terreno ricco d’erba, cosicché l’edificio risulta integrato alla vita degli abitanti locali.
Copper House II
Chondi, Maharastra (India), 2011
Il linguaggio e la logica compositiva dell’edificio si fondano su tre scelte architettoniche principali. La prima riguarda la definizione di due blocchi distinti, la cui profondità varia della misura di un piede, separati in pianta dalla corte lastricata in pietra, ma connessi al piano superiore dal tetto piano di rame. Questi due blocchi accolgono al primo piano gli spazi più intimi: nel primo una camera con bagno, cui si aggiunge uno studiolo nel secondo. Al piano terreno, una camera matrimoniale è disposta accanto al soggiorno, che svolge una funzione analoga a quella del ponte di un’imbarcazione, e si apre sulla corte e sul paesaggio generando vedute simultanee di scala e orientamento diversi. Gli spazi privati rivestiti di rame, al primo piano, sono disposti in modo tale da generare una tensione reciproca, pur garantendo isolamento e intimità. Nel Kerala, a sud di Mumbai lungo la costa occidentale della penisola indiana (come pure in molte altre regioni), la corte era il centro della casa tradizionale. Lo spazio centrale formato dalla corte circoscritta da pilastri era chiamato naalukettu; ma questo termine designava anche, nel linguaggio comune, l’intera struttura, comprendente sia l’atrio centrale, sia le quattro ali attorno. Il riferirsi alla corte per designare l’intero edificio è stato determinante per il progetto di questa casa, che è evoluto da una struttura chiusa a una aperta.
La seconda scelta è stata quella di filtrare la luce attraverso gesti concreti, rivolti a orientarla e a soddisfare il bisogno di gradi diversi d’intimità. Questo obiettivo è stato conseguito attraverso schermi realizzati con sottili reti incorniciate da legno lavorato tradizionalmente, vetro scanalato a diffondere la luce e il verde, alludendo alla città assente, e finestre di legno a battente o scorrevoli. Le pareti sono rifinite con un intonaco tradizionale color céladon, liscio come epidermide e craquelé come un antico smalto cinese, che conferisce alla casa l’aspetto fugace di un contenitore di porcellana, di forma rettilinea, diviso in frammenti riuniti da un coperchio di rame lavorato dal sole e dalla pioggia.
L’ultima scelta è stata quella di includere l’elemento acqueo, sia nella forma delle piogge monsoniche, che agiscono senza tregua sui materiali e sull’umore, sia come pozzo, canale e piscina al di là della casa. L’“impazienza” stagionale del terreno è tematizzata dalla lavorazione della pavimentazione esterna, lineare e continua nella corte, in forma di cerchio sfrangiato attorno alla casa, con ondulazioni che assecondano il fluire dell’acqua piovana verso lo sbocco più vicino. Il gesto finale è stato quello di accogliere la roccia donata dalla madre del proprietario, lasciando che il tempo se ne impossessi, come accadrà inevitabilmente.
Copper House II / © Video di Daniele Marucci
© Video di Daniele Marucci